giovedì 29 gennaio 2009

Menzogne autobiografiche


Non mi sono mai posto problemi biografici. Tanto meno scrupoli autobiografici. Dovrei scrivere miliardi di biografie su ogni singolo istante della mia vita trascorso e sognato, arbitrariamente estromesso alla “serie”… E tutto questo non certo sulla scorta della memoria… Non saprei, in definitiva, di chi parlare. Ho sempre avuto una certa ripulsa per diari e memoriali, e quando qualcosa di interessante c’era o poteva esserci, si ravvisava su un piano estetico-dottrinale o strettamente letterario (per alcuni pensatori le due ipotesi sono felicemente commiste). Il dato biografico eccedente mi lascia indifferente se non stizzito. Ad esempio, non ricordo nessun fatto illustrato nella Vita di Benvenuto Cellini scritta per lui medesimo in Firenze. Ma ricordo il gusto sensitivo della sua prosa, l’asciutto e sferzante dipanarsi di uno stile non meditato, non impiastrato di retorici vezzi. Così come ricordo l’inquieta e pugnace vitalità che informa la Vita dell’Alfieri, l’eroica tragedia di una scrittura ancora posta al vaglio di patetici omicini che indagano sulla presunta veridicità o meno dell’opera (dove sei “santa asinità” cinquecentesca..!) Ho letto varie volte e con estremo piacere l’acuta ed elegante autobiografia di Chesterton, irresistibile nelle sue divagazioni, nel suo spirito, nei suoi paradossi, nella sua raffinata insolenza. Lo scrittore londinese avvia il racconto ponendo in dubbio la sua stessa nascita, che accetta superstiziosamente piegandosi con “cieca credulità” alla “mera autorità” e alla tradizione dei suoi “maggiori”. Una storia che non gli fu “possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale”, ovvero, in definitiva, un “incidente” da accettare come un povero contadino ignorante”, unicamente perché “è stato trasmesso dalla tradizione orale”. Ciò non esclude che il racconto di quella nascita possa “essere falso”, che l’autore possa essere in realtà “l’erede da lungo tempo diseredato del Sacro Romano Impero, oppure un bambino che qualche disgraziato di Limehouse ha lasciato sulla soglia di una porta di Kensington, nel quale, fatto adulto, si svilupperà il germe di qualche orrenda eredità criminale”. Addirittura un pacato studioso scettico potrebbe “giungere alla conclusione che io non sia mai nato”. La pregevole fattura autobiografica di questo grande e intelligente scrittore è piena di divagazioni consimili. I dati biografici sono pretesto di riflessioni, ironie, paradossi gustosi e disarmanti. Non sono accertamento, pettegolezzo o giustificazione. Non mi interessano le pompose premesse offerte da Rousseau in apertura delle sue Confessioni. La patetica ingenuità di simili avvertenze (che, inevitabilmente, si convertono in atti d’accusa nei propri riguardi) è sconsolante. Può invece interessarmi certa passione che quella prosa denuncia. Altrettanto dicasi per le Confessioni dell’uomo Agostino (a lui fittiziamente dovrebbero ascriversi, non certo alla ipostatizzazione di un santo). Il vescovo di Ippona, ancora più pomposamente del francese, rivolge avvisaglie direttamente a Dio. Tuttavia non si può negare l’interesse o lo stimolo (non fosse altro che per dubitare di tutto) suscitato da alcune riflessioni (teologiche e non), a partire da quella sul tempo. In sostanza il problema autobiografico è, come per molti altri se non per tutti, un falso problema. Non credo esista un accertamento documentario o un problema biografico per L’uomo invisibile di Wells. Non vedo perché dovrebbe esserci per Aurelio Agostino, altrettanto invisibile. Entrambe le opere appartengono alla letteratura fantastica. Noi non indaghiamo o giustifichiamo il curriculum vitae del signor Griffin. Non capisco perché debbano insorgere giustificazioni ricusazioni o problemi biografici in generale per un apostolo e portavoce di Dio. Entrambi agiscono sotto l’egida del sogno e della fantasia. Mark Twain acutamente sintetizza il paradosso del falso problema autobiografico rinnovandolo senza risolverlo (giacché non c’è proprio nulla da risolvere): “Non è possibile che un uomo racconti la verità su se stesso o ometta di comunicare la verità su se stesso”. Inoltre, come qualcuno ha osservato, “colui che si accusa mente tanto quanto colui che si scusa”. Personalmente non potrei mai scrivere intenzionalmente della mia vita. Preferisco mentire apertamente. Preferisco le “identità” salde e definite operate da Borges e Casares nelle Cronache di Bustos Domecq (non meno reali della mia) ad ogni corriva malafede autobiografica. Le Vite immaginarie di Schwob e quelle illustri di Plutarco, a mio modo di vedere, hanno la stessa consistenza. Si può parlare compiutamente anche di altri (il “problema” della verità o della verosimiglianza è bandito in questa nota), ma non di se stessi, se non compiendo un gesto di ineguagliabile arroganza. Con tatto prudente e raffinato Elena Croce premette, in nuce alle sue memorie familiari, questa forma di giustificazione che almeno è una presa d’atto: “I libri di memorie sono facilmente quelli su cui chi li ha scritti ha opinioni più imprecise”. Il che è una confessione preliminare degna di merito rispetto alla vanità delle premesse precedenti. D’altra parte l’opera non è neanche lontanamente paragonabile allo spessore, alla passione e alla profondità degli altri due (s)confessati… Ma Elena Croce ha il problema (privilegio) di non essere Don Benedetto e di appartenere a quella categoria che Dossi magistralmente configura ne La Desinenza in A. (Va anche detto, a parziale discolpa dell’autrice, che sicuramente non nutriva particolari ambizioni.) Non sono alcune ricostruzioni indiziarie a dire qualcosa di noi; non più di quanto se ne possa dire parlando di altri, scrivendo un racconto, un aforisma, un epigramma, una partitura musicale o tacendo gli edulcorati scorci della memoria. Se parlassi dettagliatamente del potenziale nascituro che domani vedrà la luce, dell’uomo e del carattere che un giorno lo esalteranno, sarei più credibile; sicuramente meno fanatico. Gesualdo Bufalino non redige un’autobiografia, ma la biografia di un fantasma. Quel libro reca un titolo emblematico: “Calende greche”; e cioè, nel caso in questione, resoconto di giorni impossibili “che non furono mai o furono altrimenti, e che l’autore via via inventa, sviluppando la parabola d’una vita immaginaria”. Carmelo Bene non traccia ricordi adulterini dell’infanzia o della giovinezza. All’autobiografia preclude addirittura il “bìos”, cioè la vita, il biologico. Procedere nell’autobiografia sarà allora procedere nella (morta) Autografia d’un ritratto; cioè, ancora una volta, di un fantasma, di un’immagine. Una semplice scrittura che scrive e discrive se stessa appellandosi all’inorganico, all’inumano o all’umano inumato. (L’autografia è un mero procedimento litografico che consente di riportare un grafismo tracciato su carta autografa.) Tenere, come molte ragazzine sciocche fanno, sciocchi diari su sciocchi e miseri intrighi quotidiani, non rende conto delle nostre giornate (figuriamoci azioni…). Alcuni diari, detto frankamente, invece di restare, al più, semplici testimonianze o cronistorie di vicende personali (senza alcun valore estetico peraltro), assurgono infino agli onori dell’olimpo letterario. Trovo più interessante e seducente il procedimento inverso… Ed anche più esaustivo verosimile e illuminante: annotare puntualmente su un diario solo quello che non si è fatto e non si farà… ovvero una moltitudine indefinita e impensabile di ipotesi abortite. Tema su cui da tempo medito di scrivere un racconto che la pigrizia (straordinaria anti-musa) mi vieta.

Antonio Perrotta

Nessun commento:

Posta un commento