giovedì 29 gennaio 2009

Fantasmi dell'ultim'ora


Ricordo (con tutto ciò che il verbo comporta…) un giorno in cui un conoscente dell’ultima ora fu spettatore (a volte, deprecabilmente, partecipe) di una ditirambica conversazione tra me ed un amico (ovvero tra me e un conoscente della penultima ora) in merito alla vita, alle relazioni umane, alla morte, alla letteratura, alla fama… e ad altre divagazioni consimili per cui, in realtà, si è sempre spettatori del tronfio e goffo discorso che s’ingenera e c’ingenera, mai parte attiva… Mi dicono, il ricordo e un altro presunto testimone (quale dei due sia meno attendibile non so), che offesi la sensibilità di questo spettatore (non da me invitato, non da me richiesto, non da me notato, non da me accolto) a proposito di qualcosa che le mie labbra proferirono, irriverentemente, nei confronti della morte in generale, e cioè circa la sua palese impossibilità, irrealtà, inesperibilità… (divagazioni non nuove nei miei - nostri - excursus e che tra l’altro possono trovarmi compiacente per semplice sintonia estetico-congetturale, non certo per presunte aderenze al Vero (?) di cui non mi importa nulla…). Il giorno seguente questo conoscente dell’ultima ora, incontrandomi per strada, dopo essersi preso la briga ed aver promosso il disturbo di fermarmi, con solennità e ciglio piccato mi disse che in fondo, al di là delle parole, ero un povero e fanatico superficiale da compatire, visto che a lui, qualche anno prima, era morto il fratello e che poteva ben attestare la realtà di quella morte con l’insanabile dolore che ne derivava. Disse anche che un marmo al cimitero testimoniava, con nome e date, quella mancanza, e che avrei potuto constatarlo di persona. Aggiunse, con certo grottesco orgoglio, che, a dispetto della “realtà”, non cessava di parlare con questo defunto fratello, specie nei momenti di difficoltà e sconforto… Non dissi nulla (cosa che egli, a giudicare da una certa fierezza stampataglisi in volto, imputò sicuramente a trionfo accusatorio). Prima di recarmi al bar, cosa da cui indebitamente ero stato distolto, osservai ancora per qualche secondo il corredo vanitosamente funebre che i suoi lineamenti emaciati denunciavano, l’altezzosa e quasi lagrimosa perentorietà di uno sguardo empio di riscatto e dubbia contrizione. Davvero credeva di parlare all’Antonio del giorno prima… Davvero credeva che l’Antonio di ieri fosse vivo o che permanesse in quello dell’oggi, e che stimasse alcune sordide inezie degne di fede o propaganda. Davvero credeva a delle fragili parole che il tempo ordisce e casualmente dona. Davvero credeva di parlare importunare o mettere in difficoltà qualcuno che non cessava di scrutarlo con stupore e curiosità. Davvero credeva che parlare con il fratello defunto e con il “me” del giorno perso e sognato fosse differente… Davvero ignorava che si parla si loda e si recrimina sempre e solo a fantasmi. Davvero, per mio conto, gustai in ritardo dell’irish whiskey con rinnovato diletto.

Antonio Perrotta

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