giovedì 29 gennaio 2009

Menzogne autobiografiche


Non mi sono mai posto problemi biografici. Tanto meno scrupoli autobiografici. Dovrei scrivere miliardi di biografie su ogni singolo istante della mia vita trascorso e sognato, arbitrariamente estromesso alla “serie”… E tutto questo non certo sulla scorta della memoria… Non saprei, in definitiva, di chi parlare. Ho sempre avuto una certa ripulsa per diari e memoriali, e quando qualcosa di interessante c’era o poteva esserci, si ravvisava su un piano estetico-dottrinale o strettamente letterario (per alcuni pensatori le due ipotesi sono felicemente commiste). Il dato biografico eccedente mi lascia indifferente se non stizzito. Ad esempio, non ricordo nessun fatto illustrato nella Vita di Benvenuto Cellini scritta per lui medesimo in Firenze. Ma ricordo il gusto sensitivo della sua prosa, l’asciutto e sferzante dipanarsi di uno stile non meditato, non impiastrato di retorici vezzi. Così come ricordo l’inquieta e pugnace vitalità che informa la Vita dell’Alfieri, l’eroica tragedia di una scrittura ancora posta al vaglio di patetici omicini che indagano sulla presunta veridicità o meno dell’opera (dove sei “santa asinità” cinquecentesca..!) Ho letto varie volte e con estremo piacere l’acuta ed elegante autobiografia di Chesterton, irresistibile nelle sue divagazioni, nel suo spirito, nei suoi paradossi, nella sua raffinata insolenza. Lo scrittore londinese avvia il racconto ponendo in dubbio la sua stessa nascita, che accetta superstiziosamente piegandosi con “cieca credulità” alla “mera autorità” e alla tradizione dei suoi “maggiori”. Una storia che non gli fu “possibile controllare a suo tempo con l’esperienza personale”, ovvero, in definitiva, un “incidente” da accettare come un povero contadino ignorante”, unicamente perché “è stato trasmesso dalla tradizione orale”. Ciò non esclude che il racconto di quella nascita possa “essere falso”, che l’autore possa essere in realtà “l’erede da lungo tempo diseredato del Sacro Romano Impero, oppure un bambino che qualche disgraziato di Limehouse ha lasciato sulla soglia di una porta di Kensington, nel quale, fatto adulto, si svilupperà il germe di qualche orrenda eredità criminale”. Addirittura un pacato studioso scettico potrebbe “giungere alla conclusione che io non sia mai nato”. La pregevole fattura autobiografica di questo grande e intelligente scrittore è piena di divagazioni consimili. I dati biografici sono pretesto di riflessioni, ironie, paradossi gustosi e disarmanti. Non sono accertamento, pettegolezzo o giustificazione. Non mi interessano le pompose premesse offerte da Rousseau in apertura delle sue Confessioni. La patetica ingenuità di simili avvertenze (che, inevitabilmente, si convertono in atti d’accusa nei propri riguardi) è sconsolante. Può invece interessarmi certa passione che quella prosa denuncia. Altrettanto dicasi per le Confessioni dell’uomo Agostino (a lui fittiziamente dovrebbero ascriversi, non certo alla ipostatizzazione di un santo). Il vescovo di Ippona, ancora più pomposamente del francese, rivolge avvisaglie direttamente a Dio. Tuttavia non si può negare l’interesse o lo stimolo (non fosse altro che per dubitare di tutto) suscitato da alcune riflessioni (teologiche e non), a partire da quella sul tempo. In sostanza il problema autobiografico è, come per molti altri se non per tutti, un falso problema. Non credo esista un accertamento documentario o un problema biografico per L’uomo invisibile di Wells. Non vedo perché dovrebbe esserci per Aurelio Agostino, altrettanto invisibile. Entrambe le opere appartengono alla letteratura fantastica. Noi non indaghiamo o giustifichiamo il curriculum vitae del signor Griffin. Non capisco perché debbano insorgere giustificazioni ricusazioni o problemi biografici in generale per un apostolo e portavoce di Dio. Entrambi agiscono sotto l’egida del sogno e della fantasia. Mark Twain acutamente sintetizza il paradosso del falso problema autobiografico rinnovandolo senza risolverlo (giacché non c’è proprio nulla da risolvere): “Non è possibile che un uomo racconti la verità su se stesso o ometta di comunicare la verità su se stesso”. Inoltre, come qualcuno ha osservato, “colui che si accusa mente tanto quanto colui che si scusa”. Personalmente non potrei mai scrivere intenzionalmente della mia vita. Preferisco mentire apertamente. Preferisco le “identità” salde e definite operate da Borges e Casares nelle Cronache di Bustos Domecq (non meno reali della mia) ad ogni corriva malafede autobiografica. Le Vite immaginarie di Schwob e quelle illustri di Plutarco, a mio modo di vedere, hanno la stessa consistenza. Si può parlare compiutamente anche di altri (il “problema” della verità o della verosimiglianza è bandito in questa nota), ma non di se stessi, se non compiendo un gesto di ineguagliabile arroganza. Con tatto prudente e raffinato Elena Croce premette, in nuce alle sue memorie familiari, questa forma di giustificazione che almeno è una presa d’atto: “I libri di memorie sono facilmente quelli su cui chi li ha scritti ha opinioni più imprecise”. Il che è una confessione preliminare degna di merito rispetto alla vanità delle premesse precedenti. D’altra parte l’opera non è neanche lontanamente paragonabile allo spessore, alla passione e alla profondità degli altri due (s)confessati… Ma Elena Croce ha il problema (privilegio) di non essere Don Benedetto e di appartenere a quella categoria che Dossi magistralmente configura ne La Desinenza in A. (Va anche detto, a parziale discolpa dell’autrice, che sicuramente non nutriva particolari ambizioni.) Non sono alcune ricostruzioni indiziarie a dire qualcosa di noi; non più di quanto se ne possa dire parlando di altri, scrivendo un racconto, un aforisma, un epigramma, una partitura musicale o tacendo gli edulcorati scorci della memoria. Se parlassi dettagliatamente del potenziale nascituro che domani vedrà la luce, dell’uomo e del carattere che un giorno lo esalteranno, sarei più credibile; sicuramente meno fanatico. Gesualdo Bufalino non redige un’autobiografia, ma la biografia di un fantasma. Quel libro reca un titolo emblematico: “Calende greche”; e cioè, nel caso in questione, resoconto di giorni impossibili “che non furono mai o furono altrimenti, e che l’autore via via inventa, sviluppando la parabola d’una vita immaginaria”. Carmelo Bene non traccia ricordi adulterini dell’infanzia o della giovinezza. All’autobiografia preclude addirittura il “bìos”, cioè la vita, il biologico. Procedere nell’autobiografia sarà allora procedere nella (morta) Autografia d’un ritratto; cioè, ancora una volta, di un fantasma, di un’immagine. Una semplice scrittura che scrive e discrive se stessa appellandosi all’inorganico, all’inumano o all’umano inumato. (L’autografia è un mero procedimento litografico che consente di riportare un grafismo tracciato su carta autografa.) Tenere, come molte ragazzine sciocche fanno, sciocchi diari su sciocchi e miseri intrighi quotidiani, non rende conto delle nostre giornate (figuriamoci azioni…). Alcuni diari, detto frankamente, invece di restare, al più, semplici testimonianze o cronistorie di vicende personali (senza alcun valore estetico peraltro), assurgono infino agli onori dell’olimpo letterario. Trovo più interessante e seducente il procedimento inverso… Ed anche più esaustivo verosimile e illuminante: annotare puntualmente su un diario solo quello che non si è fatto e non si farà… ovvero una moltitudine indefinita e impensabile di ipotesi abortite. Tema su cui da tempo medito di scrivere un racconto che la pigrizia (straordinaria anti-musa) mi vieta.

Antonio Perrotta

Fantasmi dell'ultim'ora


Ricordo (con tutto ciò che il verbo comporta…) un giorno in cui un conoscente dell’ultima ora fu spettatore (a volte, deprecabilmente, partecipe) di una ditirambica conversazione tra me ed un amico (ovvero tra me e un conoscente della penultima ora) in merito alla vita, alle relazioni umane, alla morte, alla letteratura, alla fama… e ad altre divagazioni consimili per cui, in realtà, si è sempre spettatori del tronfio e goffo discorso che s’ingenera e c’ingenera, mai parte attiva… Mi dicono, il ricordo e un altro presunto testimone (quale dei due sia meno attendibile non so), che offesi la sensibilità di questo spettatore (non da me invitato, non da me richiesto, non da me notato, non da me accolto) a proposito di qualcosa che le mie labbra proferirono, irriverentemente, nei confronti della morte in generale, e cioè circa la sua palese impossibilità, irrealtà, inesperibilità… (divagazioni non nuove nei miei - nostri - excursus e che tra l’altro possono trovarmi compiacente per semplice sintonia estetico-congetturale, non certo per presunte aderenze al Vero (?) di cui non mi importa nulla…). Il giorno seguente questo conoscente dell’ultima ora, incontrandomi per strada, dopo essersi preso la briga ed aver promosso il disturbo di fermarmi, con solennità e ciglio piccato mi disse che in fondo, al di là delle parole, ero un povero e fanatico superficiale da compatire, visto che a lui, qualche anno prima, era morto il fratello e che poteva ben attestare la realtà di quella morte con l’insanabile dolore che ne derivava. Disse anche che un marmo al cimitero testimoniava, con nome e date, quella mancanza, e che avrei potuto constatarlo di persona. Aggiunse, con certo grottesco orgoglio, che, a dispetto della “realtà”, non cessava di parlare con questo defunto fratello, specie nei momenti di difficoltà e sconforto… Non dissi nulla (cosa che egli, a giudicare da una certa fierezza stampataglisi in volto, imputò sicuramente a trionfo accusatorio). Prima di recarmi al bar, cosa da cui indebitamente ero stato distolto, osservai ancora per qualche secondo il corredo vanitosamente funebre che i suoi lineamenti emaciati denunciavano, l’altezzosa e quasi lagrimosa perentorietà di uno sguardo empio di riscatto e dubbia contrizione. Davvero credeva di parlare all’Antonio del giorno prima… Davvero credeva che l’Antonio di ieri fosse vivo o che permanesse in quello dell’oggi, e che stimasse alcune sordide inezie degne di fede o propaganda. Davvero credeva a delle fragili parole che il tempo ordisce e casualmente dona. Davvero credeva di parlare importunare o mettere in difficoltà qualcuno che non cessava di scrutarlo con stupore e curiosità. Davvero credeva che parlare con il fratello defunto e con il “me” del giorno perso e sognato fosse differente… Davvero ignorava che si parla si loda e si recrimina sempre e solo a fantasmi. Davvero, per mio conto, gustai in ritardo dell’irish whiskey con rinnovato diletto.

Antonio Perrotta

Sventurato nacqui distinto


Non posso (ri)conciliarmi con voialtri… Non cerco conciliazioni umane o paraumane. Sventurato nacqui distinto, a me stesso altro, altero e inconciliabile. Coltivai distinzione e alterità, insulti ironie e oscenità. Voi apparecchiate mediocri consessi all’angolo di un quadrivio, su una pista da ballo, attorno ad uno schermo che vi incensa e consuma, sui divani, negli stadi e sugli altari… Io perduro e persuado la mia mediocre e profetica aderenza al mondo nel mio inquieto perire. Risparmiatemi, soprattutto, moniti e comprensioni. E lasciatemi divertire (cioè morire…) con capricci e infamia. Lasciatevi sognare avendo cura di non destare chi sogna di sognare e di essere sognato. Non concedo né desidero perdoni, assoluzioni, compassioni, critiche, teoremi, elucubrazioni e pettegolume in genere. Non mi interessate sotto alcun rispetto; nemmeno, oramai, sotto un punto di vista folcloristico o circense. Sono nauseato di voi e di me (il me che in questo momento insorge e scrive). Ma non vi cerco: vi subisco. Ma non mi trovo: mi perdo e mi sopporto. Abbiate cura di smarrirvi, di contestare bandire e insultare le sedicenti guide. Siate proclivi alla contraddizione. Lapidate chi vi intima la coerenza senza sapere che ogni giorno, per il semplice fatto di svegliarsi dopo il sonno, si è incoerenti per definizione. La vita è solo contraddizione. La coerenza viene - torna - dopo. Non compiangete chi vi compiange, giacché l’universo non compiange nessuno. Siamo il glorioso e perituro accidente che impone la nostra vicendevole miseria.

Antonio Perrotta

12 buoni motivi per varcare le mura cimiteriali


Non vado al cimitero per qualche insulsa ricorrenza. Basta che me ne stia seduto sulla poltrona della mia camera abbandonato al tempo - dal tempo - per constatare la ricorrenza della morte. Non capirò mai l’assurda e mesta celebrazione di certi rendez-vous cimiteriali, di certi cadenzati omaggi novembrini che impongono doveri di onoranze funebri… con tutta l’indifferenza che gli ospiti di quelle mura promanano, non diversa da quella dei marmi e delle croci che li segnalano. Si può celebrare la morte solo tra vivi (inconsapevolmente, nelle più sfrenate manifestazioni di giubilo e vitalità, è esattamente quello che facciamo). Quando varco il cancello di un cimitero è per gustare o pregustare una pace che domani non potrò testimoniare né avvertire. E’ per immaginare le molteplici vite che certi volti e date hanno sognato e sancito. E’ per constatare che tutte quelle croci, inconcepibilmente, in qualche modo, hanno condizionato e profilato i miei passi, e che nel condizionamento umorale del momento continuano a farlo… E’ per immaginare il mio corpo al di là di quei marmi, senza coscienza, senza aneliti, senza timori o speranze. E’ per sapere quanto il ricordo, il rimpianto e il dolore, appartengano ai vivi, non agli occhi vispi del bimbo che mi spia da un consunto opale in ceramica. E’ per ricordarmi che non potrò ricordare e patire alcunché così come per millenni non ho ricordato e patito l’assenza di alcunché. E’ per sapere che, aldilà di certe smanie presenziali, non sono altro che una tomba che deambula a caso (tu n’es plus qu’un tombeau qui promène au hasard, diceva Laforgue), in attesa della mia allocazione ultima. E’ per gustare la vanità di queste riflessioni di fronte ad ogni lapide che osservo e congetturo, non visto o ricambiato. E’ per immaginare che i miei giorni e il mio nome incisi (un marmo da qualche parte li accoglie) saranno osservati da qualcuno che ignoro o fuggevolmente conosco. E’ per sapere che i suoi passi, inevitabilmente, saranno condizionati dal marmo di chi non lo contempla. E’ per intuire che l’unico vero dono non è questa lenta e vanitosa morte quotidiana, adusa e procrastinata, ma quell’ultima, franca e definitiva. E’ per gustare l’umile e profonda concordia che circola tra quei rosi cadaveri a dispetto del tronfio e vanitoso deambulare di questi altri che il giorno imbelletta e la notte ammansisce e dilava.

Antonio Perrotta

mercoledì 28 gennaio 2009

Marianate DOC (Denominazione Origine Confessata)


La mattina dell’otto dicembre 1854, papa Pio IX si desta più confuso del solito e proclama la dogmaticità di una Bolla (più problematica e meno probante di quella che in questo preciso istante infastidisce l’alluce del mio piede sinistro): [...] affermiamo e definiamo rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, e ciò deve pertanto essere oggetto di fede certo ed immutabile per tutti i fedeli. Questa la conclusione di un arbitrio, infallibile e divinamente ispirato, dal titolo Ineffabilis Deus (è curioso notare come Dio si recensisca e definisca sin dal titolo, giacché non c’è motivo di dubitare che lo stesso sia divinamente infuso). Oltre questa marianata DOC (denominazione di origine confessata) cui il fedele è tenuto a credere devotamente fin dall’istante successivo alla sua pubblicazione, non si trascuri che per effetto di ciò la Beata Vergine in tutta la sua vita non ha commesso alcun tipo di peccato, né mortale né veniale (come Gesù in sostanza, che visse da umano come tutti gli umani, ma in modo perfetto, esemplare, esente da peccato. Tanto più che essendo anche Dio poteva emendare ogni peccato, passarli ingiudicati). A Maria fu dunque dato in anticipo il privilegio che poi sarà concesso al Divino incarnato, “suo” figlio: quello di vivere umanamente ma senza peccare. E questo evidentemente per dare un’immagine di purezza delle origini cristologiche su questa terra, per non contaminare una futura vita santa con l’abiezione del peccato da parte di chi, per gentile intercessione dello Spirito, l’aveva generata. E perché non concederla anche al “padre” Giuseppe? Perché fu semplice spettatore e terzo incomodo di un connubio divino, se non incestuoso, direbbero i maligni… Ma allora se il Gesù che vive senza peccare ha bisogno di una madre senza peccato, perché non provvedere in tal senso anche verso la madre di Maria e la madre della madre…? Perché oltre Maria, in realtà, i credenti smettono di interrogarsi e sono appagati. Perché elevare una donna - quella donna - senza macchia a quarta persona della Trinità (come di fatto è) con tutte le adorazioni i consensi e le apparizioni che ne conseguono, è un’abile mossa di favore politico. Perché affiancare alla Cristologia la Mariologia e soprattutto il culto mariano fa proseliti persino tra le fila di quel gentil sesso notoriamente incline ad invidiare e diffamare la gonna al trotto che non sia la propria. E tutto questo dopo i deliri verginali (in aperta contraddizione con i Vangeli) operati da Giovanni Crisostomo e dal Concilio di Nicea. Stessa politica per gli stigmatizzati e i santi, tutti con il nome di tutti e per ogni occasione, affinché ciascuno abbia il proprio Be(l)ato da sbandierare e rivendicare. Simili operazioni, dato che i credenti non sanno Dio cosa sia né vogliono saperlo (giacché non intendono confrontarsi con il Nulla), portano inevitabilmente alla moltiplicazione e all’adorazione feticista di una miriade di altarini e santi personali se non della Vergine par exellence, come il penultimo papa ha dimostrato (quel Wojtyla moltiplicatore di miracoli e di santi, miracoloso estensore e notaro di prodigi, esecutore egli stesso di taumaturgici offici in odore di santità). Lo stesso Gesù, il figlio di Dio, questa incarnazione astrologica del sole, questa contraffazione di Horus e Mithra, ha meno idolatri di “sua” madre o di padre Pio. In realtà Dio è distante perché non c’è, e per renderlo mediatamente credibile ha bisogno di una vasta scala mediana di intercessioni: dagli arcangeli e i santi ai predicatori ai profeti ai miracoli e alle statue. A questa naturale tendenza ed esigenza religiosa neppure la Chiesa ha potuto rinunciare. In compenso ne ha saputo lucrare. Questo fa sì che il Cristianesimo sia la religione più politeista e idolatra al mondo. Tuttavia mi chiedo (ed è davvero meno importante e sconcertante di ciò che ho appena scritto): In una condizione di privilegio come quella di Gesù, si può sconfiggere il peccato da cui non si è sfiorati? Si può redimere senza essersi bagnati in esso? Si può esserne anche solo tentati sapendo, o almeno intuendo, di non potere comunque esserne contaminati? Si può capire la virulenta forza che lo anima senza averlo scrutato negli occhi lasciandosene sedurre e divorare? Si può essere perfetti e onnicomprensivi senza comprendere abbracciare e professare il male? Antonio Perrotta

Delirium Ecclesia


Gli embrioni, secondo i deliri odierni della Chiesa, sono dotati di anima benché non lo siano di coscienza (ad un elefante da una tonnellata, che ospita circa 37 metri di intestino, chissà perché non è dato albergare quel soffio).
Non sarà questa forse una spiegazione del fatto che i cervelli dei credenti adulti permangono a livello embrionale?... vale a dire incoscienti e soffiati dal vento?
Inoltre in passato si riteneva, secondo le teorie scientifiche dell’epoca, che l’anima fosse infusa 40 giorni dopo il concepimento. E’ curioso notare come le nuove e più fondate acquisizioni scientifiche non stimolino il clero ad arrossire e a defilarsi in sordina dal circo dei propri assunti, ma stimoli lo stesso a strumentalizzare quelle acquisizioni adeguandovi le proprie idiozie, infischiandosene persino di Dio, continuamente colto in fallo e contraddizione.
E ancora: Se dotato di anima, come risorgerà nel regno dei cieli un embrione soppresso? Come embrione? In carne ed ossa? Secondo il profilo che avrebbe avuto se non fosse stato soppresso e che solo Dio conosce? Con le fattezze di quale età presumibilmente? Dovrà rispondere della sua anima in un Giudizio Universale senza aver avuto il tempo nemmeno di respirare o di essere battezzato..?

Antonio Perrotta

Privilegiati


E’ chiaro che non sono un privilegiato.
Ho le piccole gioie della conoscenza, del dubbio, della curiosità, dell’intuizione, della consapevolezza, della cultura… Ma i privilegiati sono quelli che mi circondano e che non sopporto, coloro con i quali non potrò mai interagire né comunicare.
Il quieto, franco ottundimento che contraddistingue la marcia rumorosa di questi battaglioni, è un privilegio che non conosco. L’andatura degli stessi è direttamente proporzionale al dosaggio di menzogne e anestetico quotidianamente instillati.
Anche i loro lamenti sono di tipo elettivo. Essi non si lamentano per la condizione di oscuro servilismo cui gli alti patronati dell’anima, dello stato, della tradizione e dell’opinione li riducono. Non reclamano libertà dal giogo o indipendenza di pensiero.
Queste cordate di impietosi valletti non inveiscono perché sono schiavi; ma perché non lo sono abbastanza.
Loro possono scegliere di non vedermi (seppure anche in questo siano guidati). Io no.
In quanto pedine, tra l’altro, sono sempre innocenti, giacché inconsapevoli attori di una scacchiera che li asserve e manovra, teatro d’un gioco dove la regola è fatale.
Ma ad essi non importa un bel nulla delle regole e del gioco, dei promotori o registi.
Semplicemente ignorano di esservi sottoposti.
Ciò in qualche modo li scagiona rendendoli innocenti.
Io non posso che essere colpevole.
Il semplice fatto di compilare questa nota ne è la conferma.

Antonio Perrotta

Quello che alle donne non dicono


Freud dichiarò che nonostante decenni di studi ricerche sedute e frequentazioni non riuscì mai a capire cosa diavolo volessero le donne. Cosa ci sarebbe da capire? Il problema, se mai, era solo capire quale diavolo di quesito si era posto Freud, e magari compatirlo. Finiranno mai le ciance millenarie imbastite attorno al presunto mistero delle donne? alla loro profondità? al loro intuito? al loro ineguagliabile senso pratico? alla loro speciale sensibilità? alla loro complessità..? L’uomo nel tempo le ha costruite monumentali per non sentirsi ancora più solo e disperato nell’universo, per giustificare una costola e del fango, per non voler accettare di avere al fianco una rosa tanto profumata quanto vana e nel fianco una spina tanto delicata quanto acuminata. Nei secoli ha dunque inteso nobilitare letterariamente quest’aura inestesa di grembo e di pianto, senza peraltro ricevere la benché minima gratitudine. Quando le donne hanno creduto di essere più intelligenti e libere mettendo mano esse stesse alle arti e alle lettere, incredibilmente sono riuscite nel proprio suicidio estetico, sono riuscite a sbugiardare secoli e secoli di inarrivabili ceselli e orpelli rosamontati consacrando la loro disfatta e lasciando cadere quel velo leggendario da nobile creatura, angelica, ispirata, misteriosa e volatile che l’uomo, volutamente cieco, le aveva donato. Le donne, come i gatti (altro grande abbaglio millenario), non sono complesse imprevedibili o misteriose. All’uomo che contempla estasiato queste creature, esse paiono tali perché estremamente semplici e ai minimi termini, tali da rasentare una mostruosa complessità a pelo d’acqua, una superficie così limpida e trasparente da risultare perciò invisibile e innocente. In profondità si nuota spostando chili d’acqua senza riuscire a liberarsene, incantati e potenzialmente annegati, costernati sedotti e atterriti dagli abissi, dalla tremenda possibilità di visitarli per non risalirne mai più. In superficie non si può che galleggiare, fare il morto e lasciarsi spazzolare dal vento (condizione sommamente più incosciente e felice di cui l’uomo, aggiogato ai falsi miti degli abissi, ha voluto in qualche modo vendicarsi costruendo con le lettere un abisso di mistero sotto le carni tumultuose che la donna dimenava urlando tutta l’evidenza della sua e della nostra destinazione senza destino: procreare, dare continuamente forme alla morte in un gioco al massacro che non importa a nessuno… Quando poi ha visto che sotto l’inganno degli amori, della vita e delle specie non c’era che questo, con supremo sadismo ha voluto intentare legami sacri legali e duraturi per contraffare e convertire la vertigine fugace di un grido coitale, da contingente e momentaneo disbrigo naturale, a perdurante equivoco etico estetico e sociale. ) I gatti, del pari, queste tigri da pantofolai, questi puma da scodella e divani, non coltivano reconditi segreti, non celano sibille o arcani negli occhi, non sono misteriosi: sono estremamente stupidi ed opportunisti.

Antonio Perrotta

lunedì 19 gennaio 2009

Schermocrazie e farsa democratica


Sarebbe arduo ed illusorio raccomandare oggigiorno ciò che Calaf intona all'inizio del terzo atto della Turandot di Puccini:

"Nessun dorma!.."

Il sonno oramai è talmente pervasivo da risultare una vera e propria intossicazione cronica da assuefazione. Ci si è talmente assuefatti alla dolce e ovattata imbecillità, franca da pensiero critiche dubbi e scetticismo, da divenire, in caso di pensieri e atteggiamenti fuor della devota sacca legislativa del buon senso comune, sospettosi poliziotti e aguzzini di noi stessi.
In altre parole siamo talmente narcotizzati da controllarci a vicenda, da essere veri e propri squadristi censori pronti ad emarginare ridicolizzare e denunciare chiunque biasimi o metta seriamente in discussione il sistema.
Il controllo tecnico-informatico delle menti ad opera di nanotecnologie è solo una sciccheria rassicurante per evitare il benché minimo rischio.
La globalizzazione mentale (quella fondamentale) è attuata da tempo. Quella geopolitica, legislativa, economica e finanziaria in atto, non è che debita cornice al bianco e nero cerebrale steso e diluito sulla tela. Di colori neanche l'ombra. Qui non si ha più a che fare con la "Santa asinità cinquecentesca"... Magari! Qui non si tratta di schietta sana e corroborante ingenuità agreste, ma di perversa e colpevole vocazione all'abbaglio.

In determinati contesti mistici e rituali, già i popoli antichi consumavano e inalavano sostanze allo scopo di alterare la coscienza ed offrire soluzioni ad un problema, propiziare gli dei, scacciare malattie e beneficiare la collettività.
Oggi si continua in questa curiosa pratica di ottundimento. Ma non sono singoli sacerdoti e sciamani che intercedono tra arcani e collettività nell’intento di guarire o esaudire le richieste di quest’ultima. E’ l’intera collettività ad ottundersi abbeverandosi al cloroformio dei media e delle democrazie, a scapito di qualche sporadico e isolato ribelle.
Il popolo vuole essere sedato guidato imboccato ingannato. E non fa che chiederlo, quotidianamente: dalle urne elettorali alle informazioni commerciali.
L’ottundimento è di massa. Dall’etere anestetico di Sir Humphrey Davi, all’etere mediatico con cui si inondano case strade piazze e cortili. Dal gas-esilarante al tele-conturbante.
Le masse sono etero-dirette.
“Il popolo non elegge chi lo cura, ma chi lo droga”, scrive Dávila.
Ma la cura, per il popolo, è proprio l’anestetico.

Ora, personalmente, è chiaro che non sono un privilegiato.
Ho le piccole gioie della conoscenza, del dubbio, della curiosità, dell’intuizione, della consapevolezza, della cultura… Ma i privilegiati sono quelli che mi circondano, coloro con i quali non si può interagire né comunicare.
Il quieto ottundimento che contraddistingue la marcia rumorosa di questi battaglioni, è un privilegio che non conosco. L’andatura degli stessi è direttamente proporzionale al dosaggio di menzogne e anestetico quotidianamente instillati.
Anche i loro lamenti sono di tipo elettivo. Essi non si lamentano per la condizione di oscuro servilismo cui gli alti patronati dell’anima, dello stato, della tradizione e dell’opinione li riducono. Non reclamano libertà dal giogo o indipendenza di pensiero. Queste cordate di impietosi valletti non inveiscono perché sono schiavi; ma perché non lo sono abbastanza.
Loro possono scegliere di non vedermi (seppure anche in questo siano guidati). Io no.
In quanto pedine, tra l’altro, sono sempre innocenti, giacché inconsapevoli attori di una scacchiera che li asserve e manovra, teatro d’un gioco dove la regola è fatale.
Ma ad essi non importa un bel nulla delle regole e del gioco, dei promotori o registi. Semplicemente ignorano di esservi sottoposti. Ciò in qualche modo li scagiona rendendoli innocenti.
Io non posso che essere colpevole.
Il semplice fatto di compilare questa nota ne è la conferma.
La farsa democratica consiste nel credere di essere artefici di una trama imbastita da altri.
Marx aveva già sottolineato la destinazione senza destino cui si soggiace. Estraniandovi dalla proprietà e peculiarità unica (quella urlata dimessamente da Stirner), avete reso merce un bene inespropriabile, reificando la vostra persona sull'altare dell'impiego e del trovarobato.
Successivamente Duchamp ha provveduto a sintetizzare mirabilmente questa destinazione nell'orinatoio museale, nell'objet trouvé.
Ma, credetemi, l'orinatoio di Duchamp varrà sempre più di qualsiasi latrina in carne ed ossa esibita dagli schermi e dal potere

Le masse intasano poltrone palchi e obiettivi per smarrirsi definitivamente, per rescindere ogni ipotetico interscambio informativo a beneficio d’un vassallaggio statistico di propensioni al consumo. Si credono protagoniste e sono consumate. L’indiscriminata partecipazione collima con la completa esautorazione, mentale prima e fisica poi.
Importante è adulare, e adulare nelle più miserrime piccinerie. Importante è servire a bella posta melensaggini e tribune rosa, disporre in primo piano beghe fornicanti d’imbecilli affinché i più si riconoscano e contraccambino (con ascolti e consensi) questa proba vicinanza ai loro drammi quotidiani.
Con la televisione la capacità di lasciarsi mediatamente sedurre e sbigottire dal proprio pettegolume è enormemente cresciuta. Nei paesi a regime democratico il fenomeno è incontenibile.
Che lo si voglia o no le democrazie non sono altro che un coacervo di dittature eterogenee sulle quali primeggia quella dell common sense, fregio indiscusso di chi si adopera - verbo et opere - a vendemmiar nebbia. Kant, che pure era al riparo dagli innumerevoli dispotismi della “civiltà dei consumi”, intuiva il falso presupposto secondo cui una larga forma di dominio (forma imperi) sia maggiormente rappresentativa. Per esserci barlume rappresentativo, continua Kant, bisogna evitare che il Legislatore sia “in una sola e medesima persona anche esecutore della sua volontà”.
Oggi la comunicazione, in una sola e medesima persona (l’ideale ma imperante Opinione pubblica rappresentata dai media) è legislatore ed esecutore della sua volontà. Il fatto che le briglia della stessa siano tese e guidate da elite al potere non attenua minimamente la responsabilità soggiogante di milioni e milioni di persone. Anzi: non fa che confermare l'orrore vocazionale di questi cadaveri in balia di specchi fumo strenne e vetrine.
L’intera massa del popolo (servum pecus) è sovrana perché in essa si trova il potere supremo (la Pubblica opinione legislativa) dal quale ogni diritto dei singoli (semplici sudditi) deve essere dedotto, ed in ottemperanza del quale ogni espressione contraria deve, se necessario, essere costretta al silenzio.
Parafrasando Mill dovrei essere nelle condizioni di pensare che se anche l’intera società meno uno avesse una stessa opinione, e soltanto io l’opinione contraria, la società non avrebbe maggior diritto di ridurre me al silenzio di quanto ne avrei io - se lo potessi - di ridurre al silenzio la società.
Ciò non è perché l’Opinione generale si eleva a rango di dogma. Il suo ontologismo è nella fede.
Che io sia allora governato dal modo di pensare di un monarca o da quello di un popolo sovrano, non fa alcuna differenza. Anzi… il monarca rischia di essere illuminato.
Come dice ancora Gómez Dávila: “I parlamenti democratici non sono anfiteatri in cui si discute, ma recinti in cui l’assolutismo popolare registra i suoi editti”.

L’incestuoso elidersi dell’individuo (putto) nella folla (mala putta) congiura la nascita di quelli che Capograssi chiamava i “regimi di massa”, cioè la tirannia del gran numero. L’individuo (ciò che ne rimane) “è tipicamente amalgamabile con gli altri”; egli si rende “continuamente disponibile per tutti gli ammassamenti, pur restando dentro questi ammassamenti, paradossalmente solo”.
A seguito di quell’elisione incestuosa “nascono le masse come protagoniste”, cioè “gli individui che si offrono perché si faccia qualcosa della loro vita”.
La televisione, particolarmente incline ad immobilizzare quanto di più demenziale e poco intelligente circola sulla scena, ama pubblicizzare l’artistico che non c’è, che non si ravvisa, che non si evince, quantunque sia estrosa la capacità di giudizio dell’utente. Ciò che si propugna è una sorta d’impietoso ottundimento critico, un volgare e meschino predamento d’interesse in nome degl’indici al consumo.
Chiunque abbia l’opportunità di sgambettare nelle bronzee casse del miraggio mediatico, rischia l’intrusione artistica: rischia cioè di essere osannato giudicato e denigrato per ciò che non è, giacché quale sia l’ambito d’imputata pertinenza è ignobile chiedere.
Largo spazio ad esperti ed opinionisti: purché opinino sull’opinione, purché rosicchino il torsolo dentellato di mele gettate ad un pubblico bulimico e vorace.
Esemplifico i popolani delle odierne Schermocrazie, i suoi servi, con un accostamento ingeneroso ma di socratica ascendenza (l’ingenerosità è per l’ascendente): essi non cessano di riportarmi alla mente l’esaustiva icasticità del caradrio, uccello che, mentre mangia, evacua.
L’ansia di essere gabbati credendosi osannati, ingigantisce le smanie presenziali (politiche sportive culturali sindacali e televisive in genere). L’opportunità di primeggiare cavalcando il basto più in vista nell’acconcia mulattiera della fama, obbliga a presumere iridata ogni squallida locanda del tratturo. “La cosa più incredibile dei miracoli - diceva Chesterton - è che accadono”. Da ciò può concludersi che le vite individuali sono meno importanti delle reputazioni pubbliche. La macchina per la gloria escogitata da Villiers, “simbolo riconosciuto dell’incapacità della folla di discernere autonomamente il valore di ciò che ascolta”, macina a pieno regime.

"L'obbligo morale dell'idiota, in quanto uomo, è di smettere di essere idiota", inferiva Unamuno.
Purtroppo "l'essenza del puro idiota sta nel fatto che egli non sospetta minimamente di essere un idiota, si crede in buona fede furbo, e quanto più grande è l'idiozia che ripete tantopiù si convince di enunciare una profonda verità".

Antonio Perrotta

domenica 18 gennaio 2009

Meritocrazie vigenti


Meritate i vostri governanti, i vostri reggenti, i vostri padri spirituali, tutti quelli che invocate e rappresentate molto bene, di cui abbisognate, di cui vi lagnate senza farne a meno, senza intentare crimini… (soprattutto mentali)
Così come di voi stessi tornate a lagnarvi, continuamente, senza riuscire a suicidarvi ed essendo convinti di non farlo vivendo ogni giorno… con i vermi in bocca.
Meritate le vostre parodie, i vostri altari, le vostre cadute, i vostri peccati, i vostri cieli, il vostro grumo di sangue e polvere fisso al centro dell’universo solo per voi e per la gloria di chi lo ha impastato.
Meritate i fantasmi, i folletti, i cieli scesi in terra, la Taxa Camarae e L’eone X, la popolatria, l’Opus Dei, le dittature millenarie dei porporati, dei martiri, dei profeti, dei santi, dei miracoli, delle stigmate, dei visionari, delle apparizioni, delle spoliazioni e delle sacre polluzioni, delle madonne, delle pastorelle più belanti delle capre che seguivano… di tutte le insulsaggini e il ciarpame con cui vi ricoprono sotto precisa richiesta, di tutti i cialtroni cui affidate finanche il destino di un’unghia che credete diverso dal vostro.
Meritate la scuola, l’istruzione pubblica, privata, gli asini che coltiva e foraggia.
Meritate l’inganno, il mito del bene, della bontà, della redenzione e della dannazione, l’inferno, il purgatorio, le porte sante, il giubileo, l’otto per mille, la confessione, gli atti di dolore, la castrazione, l’immolazione per le più incredibili idiozie, per le più fantasmatiche astrazioni in cui larvate e marcite.
Meritate l’inganno di stato, i dolori pubblici, i lutti nazionali, le parate militari, il milite ignoto, le cerimonie collettive, il torpore che bramate, il sopore che vi coglie, la narcosi che cercate.
Meritate i rappresentanti, i comitati, i sindacati, i comizi, le piazze, le graduatorie, le liste d’attesa, i proclami, le casse e le integrazioni di cassa, gli straordinari e le decime, le mense e finalmente gli ospizi.
Meritate egemoni democrazie che organizzano e finanziano attentati, il genocida che li consente, i criminali che piangono il pianto, le vittime, il popolo che manovrano fagocitano e ammazzano… Le democrazie che inscenano cordoglio terrore e terroristi, che pagano e fondano corporazioni, oligarchie, massonerie, banche, crak finanziari e crisi di mercato, studiate emissioni di moneta già gravata da interessi e portatrice di debiti per sopperire a precedenti emissioni di moneta già gravata da interessi e portatrice di debiti…
Meritate la borsa, le speculazioni, gli indici al consumo che siete, il signoraggio, le riserve frazionarie, il debito pubblico e le quadruplici pappagorge degli omini che ingrassate, degli illuminati che ignorate.
Meritate il dominio di entità sovranazionali, il potere economico politico mediatico alimentare e mentale che un manipolo di ossessi instaura, di cui neanche sospettate la parvenza (figurarsi l’esistenza o la presenza…).
Meritate i collageni per le tette e quelli per le teste (entrambe gonfie e tumescenti), la pubblicità, la televisione (specchio vostro), le prime visioni (che sono antiche visioni perché antica è l’imbecillità), la propaganda e la demagogia che incarnate.
Meritate il lavoro, l’occupazione, l’assicurazione sulla merce-vita, la disciplina, gli scioperi, la salvaguardia del posto, i ricatti, la testa china e una lunga scia di lingue. Meritate le opportunità (quelle dispari, quelle pari…), l’evoluzione dei costumi, le garrule masnade psicanalitiche, le sette, i mistici, gli astrologi e i maghi.
Meritate le onoranze, le medaglie, i gradi, le bandiere e i roghi sacri.
In sostanza: tutto ciò che ogni giorno, ogni ora, ogni istante, avidi ingaggiate.
Con chi “diavolo” (solo con lui eventualmente…) dovrei conciliarmi o andare d’accordo?
Non vado d’accordo con me stesso… e già siamo in troppi! Per quale motivo dovrei andare d’accordo con voi?!
Vivo (o sogno di vivere) per un verso di Dante, una nota di Sibelius o l’esplosione dell’amplesso… sogni anch’essi.
Perduro nell’oblio… Sono ancora nell’oblio, nonostante questa deiezione al nascere.

Antonio Perrotta

Il dogma del lavoro e il signoraggio bancario: schiavi per sempre


Ciò per cui oggi falsamente si blatera (per lusingare gli animi e cullare il sonno alle teste vuote), è la necessità di un rinnovamento del sistema occupazionale basato su una certa etica del lavoro.
Punto primo, l'introduzione di un regime meritocratico. Il che, per l'appunto, se mai si realizzasse (e non è chiaro quali siano le coordinate del/di merito), sarebbe nient'altro che un nuovo regime, peggiore dell'attuale.
L'unico criterio di scelta attuabile in luogo della raccomandazione, in un sistema produttivo tecnocratico governato ai vertici da potentati monetari e finanziari, sarebbe la totale sottomissione ai dettami produttivi. Chi osasse avanzare dubbi, rivendicare qualcosa o semplicemente biasimare il sistema, non meriterebbe la calda accoglienza in seno agli addendi di questa sommatoria, non sarebbe degno di tanta grazia benefattrice.
Ma questo non è che un punto irrisorio, una variante della questione.

Il problema è chiedersi perchè questi infeltriti cadaveri che sgambettano in preda al mito del benessere lavorativo, degli scatti in carriera, plaudano all'inasprirsi di un regime sotto le cui ronde boccheggiano e marciscono da secoli. Perché si sentano entusiasti e lusingati dalle prospettive di una carriera basata sull'obbedienza, sulla dedizione, sullo straordinario, abbacinati dalla prospettiva di una cena col capo o da qualche centesimo in busta paga.
L'uomo, originariamente, è altro. Il suo impiego coatto e quotidiano (pena la fame) nella catena di montaggio è una mostruosità che andrebbe perseguita con la galera.
Ogni singolo minuto della mia vita buttato al servizio di qualcuno dovrebbe valere, male che vada, alcuni miliardi, indipendentemente dalla mansione svolta. L'uomo dovrebbe avere la possibilità di poter vivere dignitosamente senza lavorare, perlomeno nel senso canonico del termine. Se lo vuole, dovrebbe poter affrontare un qualunque tipo di attività anche se non immediatamente valutabile in termini produttivi e dunque remunerativi. Dovrebbe avere la possibilità di dedicarsi ad una qualche forma d'arte o studio o ricerca senza per questo patire la fame.
Il lavoro canonicamente inteso deve rimanere una mera vocazione personale; non una necessità vitale.

La gente arriva ad osannare il proprio impiego quotidiano menando vanto del monte ore accumulato. Deride e discrimina chi vorrebbe sottrarsi alla tirannia della mercificazione umana bollandolo come scansafatiche. E' talmente convinta che il lavoro sia la vita e che quest'ultima vada guadagnata e vissuta lavorando che difficilmente potrà considerare il detrattore qualcosa di più di in parassita. Ignora totalmente che in realtà la schiavitù del lavoro è funzionale agli unici veri parassiti in cima alla piramide. Ignora che questo sistema è semplicemente il peggiore, non l'unico, e che viene mantenuto sano (cioè malato) per scopi ben precisi.
Tutto ciò è talmente incredibile da creare, personalmente, sentimenti contrapposti: rabbia pena biasimo disgusto ironia...
La gente è talmente imbevuta di siero pubblicitario informativo e propagandistico da non essere minimamente sfiorata dal dubbio. E se lo è, il dubbio in causa è un sottoprodotto consentito e ugualmente manipolato dalla stessa propaganda, fisiologicamente vitale per il sistema medesimo. Un simile dubbio sarà sempre e comunque volto nella direzione sbagliata. Sarà sempre un tassello illusorio dello stesso mosaico che persuade le menti circa una presunta libertà di critica e di pensiero. E, come disse Goethe, "non c'è peggior schiavo di colui che è falsamente convinto di essere libero".

Come se non bastasse questo processo si fonda (ed è possibile) grazie ad ulteriori aberrazioni secolarizzate. Alcune ataviche stratificazioni mentali (che in qualche modo preordinano e bendispongono quello che Jung chiamerebbe inconscio collettivo) consentono questa nemesi ingannatrice: tradizione folclore superstizione religioni dogmi autorità politica e quant'altro.
Pertanto non si tratta di vivere in una illusione globale (metafisicamente intesa); o perlomeno non è di questo che ora si vuol trattare.
Qui è bene comprendere, o almeno scorgere, la portata globale dell'inganno cui più o meno consapevolmente (ma sempre colpevolmente) si soggiace.
Le vostre menti, perverse e pervertite ad un tempo (dal sistema nel sistema per il sistema), sono arrivate a considerare il lavoro un dovere, un dono, una nobilitazione, una fortuna, una grazia. Il lavoro, la ricerca spasmodica del posto di lavoro, dell'impiego umano sotto il mito del successo e del benessere, è divenuta dogma.
Domanda: riuscirete minimamente, dimenandovi tra turiboli e anestetici, a considerare (non dico scalfire) l'immonda infamia che nel tempo è riuscita a persuadervi di tutto ciò sino a farne oggetto di fede e di culto?
Non posso essere ottimista. Altri dogmi, da milleni, finanche più assurdi e incredibili di questo, permangono in ottima salute. Anzi: il tempo sembra addirittura consolidarli (in grazia del potere che si lascia consolidare nei secoli tra le mani di chi può trarne vantaggio).

La gente deve essere impiegata, il tempo della tua unica vita deve essere spremuto in una occupazione che distolga dal pensare, dal domandare, dal ritrovarsi, dal rendersi conto che in quanto uomo si è potenziali capolavori e che l'infame coercizione al sudore per la sopravvivenza, per sbocconcellare appena, costituisce l'esatta negazione di quella meraviglia potenziale.
Ed è necessario far credere che quel sudore sia un privilegio che nobiliti la natura umana, che faccia fronte ad esigenze proprie, utili a se stesso, alla famiglia, alla convivenza sociale.
Non si sciopera sacrosantamente in massa per rivendicare il diritto umano a vivere senza lavorare. Si sciopera quando non si ha occupazione, sottomissione. Se non si è bestie da soma si reclama il giogo.
"Il lavoro nobilita l'uomo"... Questo è stato ripetuto, incessantemente. Mentre non può che ottunderlo e debilitarlo.
L'uomo, dovendo scegliere, è molto più vicino alla cicala che alla formica. Quella favola non è una innocente storiella volta a responsabilizzare il bambino sin dalla culla; non nel senso in cui si crede. Semplicemente è volta ad irreggimentarlo. La scuola non è altro che un campo di concentramento didattico in cui si irreggimentano futuri automi e cadaveri. Sempre più non a caso si parla di scuola e proposte formative per il mondo del lavoro. Le scuole, le università, ti portano in gita nelle fabbriche, nelle multinazionali... Cercano subito di inserirti e inquadrarti nel mondo del lavoro, nella sua ottica.
E intanto il mondo produce il triplo rispetto alla domanda. Ma bisogna ancora lavorare produrre indebitare... non distribuire e godere delle immense ricchezze senza dilaniare il pianeta.

Si lavora per sottostare al peggiore regime schiavistico monetario mai concepito, in favore (volendo risalire ai vertici) di pochi banchieri settari.
Miliardi di persone lavorano per accentrare ogni potere nelle mani di costoro mantenendo le famiglie degli stessi nel lusso più sfrenato e perpetuando ogni loro privilegio e potere di generazione in generazione.
Migliaia di persone chiedono soldi a questi signori indebitandosi sino al collo per della carta inesistente, creata dal nulla, impegnando finanche il sudore dei padri affinché, con una nuova vita di fatiche e sudori restituiscano pezzi di carta (questa volta reali giacché intrisi di martirio personale) a chi non elargì nulla, e, soprattutto, nulla di proprio.
Ma la gratitudine, per essere veramente tale, non potrà prescindere dal corrispondere, sotto forma di interessi, qualcosa in più rispetto al nulla elargito. E se mai si volesse essere talmente sconsiderati da negare quella gratitudine, la Giustizia interverrebbe nel rendere l'inadempiente perseguibile ai sensi di legge.
In più è giusto che il reddito proveniente dalla schiavitù sia ragguardevolmente tassato. E non per quei pochi penosi servizi che lo stato concede in contropartita; ma per pagare gli interssi sul debito eterno, inestinguibile, costituito da carta straccia. In sostanza si tratta di drenare risorse al cittadino durante tutto l'arco della sua squallida vita lavorativa per restituire denaro ai banchieri centrali sovranazionali, consentendo così la perpetuazione di una truffa mondiale basata sul debito. Il tutto sotto la tacita connivenza dei governi e dei loro rappresentanti, semplici camerieri e burattini del sistema, veri e propri esattori in nome e per conto dei grassi paperoni internazionali.
Non a caso Thomas Jefferson ebbe a dire: "Credo sinceramente che le istituzioni bancarie col potere di creare ed emettere moneta siano più pericolose per la libertà che esrciti in armi". Senza mezzi termini invece Henry Kissinger: "Chi controlla il denaro controlla il mondo".

A chi dunque impone di elemosinare prestiti ed ha la benevolenza di concederli nominalmente affinché si abbia l'onore di lavorare dovendo un domani ricambiare col denaro e la vita qualcosa in più del nulla dato, sii grato ed obbediente: è per te che stai lavorando. L'impiego è la tua vera natura, il senso ultimo della tua esistenza, l'intima elevazione mentale e spirituale cui l'uomo può e deve aspirare.
Se non ci credi basta che ascolti chi dal pulpito rappresenta i tuoi interessi, chi predica e combatte ogni giorno per la tua dignità e realizzazione. Forse il tuo Presidente della Repubblica non esorta ogni giorno in tal senso? Non conferma forse essere la dignità primieramente nel lavoro? Non lo hanno per questo scritto e sancito nel primo articolo della Sacra Costituzione? Non lo ripete forse anche il Sommo Pontefice dall'umile Loggia ecclesia in S. Pietro?
Non vorrai certo mettere in dubbio la parola di due infaticabili lavoratori o addirittura quella di Dio sceso in terra!? O vorresti forse che la banca del Signore cessasse di riciclare capitali per le sue opere di bene?

Il Signoraggio è il Signore Dio tuo.


Ormai non si tratta più di scoprire che la democrazia è una finzione, un lugubre gioco di facciata. Nemmeno si tratta di biasimare l'egemonica tirannia delle plebi. Sono le plebi ad essere, sia pure colpevolmente e vocazionalmente, tiranneggiate. I cenacoli politici non sono che un medium tra le plebi e l'elite, un diversivo che scongiuri lo svelamento. Elezioni, candidature, partecipazioni alla vita pubblica, referendum... tutto si risolve in belletto, maquillage d'accatto.
Corporazioni banche ed alta finanza. Questo è ciò che si nasconde dietro le quinte della cronaca e della storia ufficiale. Ma la storia non solo è da riscrivere: è da cancellare. Esimi studiosi ancora brancolano nel buio. Ottusi accademici ancora emendano e revisionano storielle all'interno del medesimo inganno, concedendo varianti all'eterno sonno.
Banche centrali, banca mondiale, Onu, Council on Foreign Relations, Commissione Trilaterale, Loggia Ecclesia, Bilderberg Group.
Oramai non esistono più nemmeno i governi.

Se dunque devi essere occupato per raggiungere il tuo scopo, perchè interrogarti? Abbiamo già tutte le risposte, e le offriamo senza che tu perda tempo a cercarle. La tua essenza è nel lavoro, non nel domandare. E' nell'identificarsi con esso, nel pensare con esso, nel misurarti e valutarti per esso e con esso.
Per raggiungere questo autentico grado di consonanza con il tuo essere uomo, non hai che da faticare (otto dieci anche dodici ore al giorno), almeno sei giorni su sette. E per non distoglierti da questa illuminata consapevolezza, nell'unica giornata d'aria concessati, inonda gli stadi gli altari le piazze i negozi i dopolavori... Frequenta i tuoi pari e sbadiglia insieme a loro. Tanti più sarete, tanto più lo sbadiglio diverrà contagioso.
Ma se, dopotutto, comprensibilmente, sarai stanco, resta pure a casa... senza troppo pensare, senza troppo distoglierti dal torpore necessario alla mente e al domani, denso di nuove fatiche e doveri. Basta che il dito intervenga ad illuminare uno schermo dove è possibile (anzi indispensabile) mirarsi vezzeggiarsi cullarsi per poi, finalmente, dormire... ancora russare e dormire.
Un'ultima premurosa raccomandazione onde evitare che tu incorra in spiacevoli sanzioni. Non dimenticare, prima di coricarti in quel misero e pignorabile loculo domestico, di caricare la sveglia sulle prime luci dell'alba.
Non, sia chiaro, per godere dell'alba; tutt'altro. Ma per correre a donare il tuo pane quotidiano.
Questo è l'unico mistero eucaristico, ed ogni giorno si rinnova: la carne diventa pane; il sangue, vino.

Antonio Perrotta