domenica 28 novembre 2010

Il pesce? Fa bene a chi lo vende

di Franco Libero Manco e Valdo Vaccaro

Nelle pergamene del Mar Morto, scoperte nel 1947, Gesù dice: “Forse che i pesci vengono a voi a chiedere la terra e i suoi frutti? Lasciate le reti e seguitemi, farò di voi pescatori di anime.”
Se noi umani potessimo udire il grido di dolore dei pesci agonizzanti nelle reti, un uragano di terrore coprirebbe la faccia della terra e nessuno più oserebbe uccidere o mangiare le creature del mare. Se si dovesse pagare il reale valore del pesce e della carne ben pochi potrebbero permettersi il lusso di mangiare questi prodotti senza i pesanti sussidi dello stato agli allevatori e ai pescatori.
L’88% delle riserve del pesce in Europa sono sfruttate in eccesso e le più grandi specie sono in rischio di estinzione. Mentre le riserve diminuiscono i prezzi aumentano, quello del merluzzo è quadruplicato in 5 anni.
Il consumo mondiale esplode, mentre la Cina inghiotte 1/3 del pesce mondiale.
Il 70% del pesce consumato in Italia viene dall’estero, il 40% da allevamenti.
I pesci d’allevamento contengono enormi quantità di additivi chimici, di ormoni e farmaci che servono ad aumentare velocemente il peso dell’animale, oltre ad evitare dannose epidemie.
Per 10 kg di spigole di allevamento occorre sacrificare 100 kg di sardine catturate in mare.

Negli ultimi 30 anni il 30% delle risorse sono scomparse.
Il 75% delle riserve mondiali di pesce è già stato completamente sovrasfruttato o esaurito” (FAO)
Le più importanti specie di pesce del nostro paese, tonni e merluzzi, sono in pauroso declino a causa dello sfruttamento dissennato delle acque marine.
Nel 1997 la raccolta di pesce ha raggiunto nel mondo la cifra record di 130 milioni di tonnellate, di cui circa 100 milioni deriva dalla pesca libera che causa uno sterminio indiscriminato di specie acquatiche.
Le reti pelagiche per i tonni e per la pesca a strascico dècimano anche i delfini.

INQUINANTI
Uno studio condotto dall’Onu dimostra che ogni anno vengono versati in mare 900 mila tonnellate di fosforo, 200 milioni di tonnellate di azoto e 85 mila tonnellate di metalli pesanti, 200 mila di organocloruri, 47 mila di idrocarburi policiclici aromatici provenienti dalle aziende petrolifere, dall’industria chimica, metallurgica e dagli impianti per il trattamento delle acque fognarie.

DANNI
Studi clinici sull’uso di pesce ed olii di pesce nei sopravvissuti da infarto miocardico mostrano una riduzione della mortalità tra il 15 ed il 30%.
Per contro l’uso di diete a base di cibi vegetali, che includono olii vegetali ad elevato contenuto di acidi grassi monoinsaturi ed Omega-3, mostrano una riduzione della mortalità del 50-70%.
Il pesce è carne putrescente e grassa ai massimi livelli, al pari e di piu’ di ogni altra carne: è materiale ultra-tossico, stimolante e non nutriente per il corpo umano.
I processi alterativi si manifestano più rapidamente nei pesci marini rispetto a quelli di acqua dolce. I grassi come quelli del pesce sottoposti a cottura perdono il loro enzima lipase, indispensabile per una loro parziale digetione-assimilazione. Il grasso cotto del pesce forma creatina, sostanza micidiale per il fegato.
Nel pesce ci sono velenose concentrazioni di cloruro di sodio (che con la cottura diventano massa inorganica causante tumori gastrici, ritenzione idrica, gravi idropisie), diossine, ritardanti, alte concentrazioni di minerali micidiali tipo mercurio e cadmio. La dr.ssa Kate Mahaffey, dell’EPA (US Environmental Protection Agency) ha citato una ricerca del 2004 condotta su 1709 donne americane, suddivise tra soggetti che mangiavano pesce o molluschi 9 volte al mese e soggetti che non consumavano pesce. Le concentrazioni di mercurio nel primo gruppo erano sette volte maggiori rispetto al secondo.
I pesci sono tra le sostanze più putrescibili esistenti in natura e gli alimenti sono tanto più dannosi quanto più rapida è la loro putrefazione.
Sono ricchi di purine (sostanze azotate che fanno aumentare i livelli di acidi urici nel sangue) e di metalli pesanti dovuti all’inquinamento delle acque a causa degli scarichi industriali e fognari.
Il pesce contiene le stesse tossine delle carni e può causare, oltre i danni della carne, parassitosi (es. tenia, ascaridi), asma, eczema, prurito, allergie, malattie renali, danni al sistema nervoso, ecc.
Le immense quantità di mercurio che le industrie scaricano nel mare (circa 10.000 tonnellate all’anno) passano facilmente dal pesce nell’organismo umano.
E’ utile ricordare la strage di Minamota (Giappone) del 1952 nella quale morirono 77 persone ed altre 360 rimasero invalide per aver mangiato pesce ricco di mercurio. Ma oltre al mercurio deve preoccupare la presenza, nelle cozze, nelle ostriche e nei crostacei, del cadmio e del piombo.
Spesso le cozze sono causa di epatite A.
Il pesce può anche trasmettere all’uomo la salmonella, larve di tenia e di ascaridi, né la cottura è sufficiente a scongiurare i pericoli in tal senso. In passato l’uso eccessivo di pesce in alcune regioni del Terzo Mondo a favorito l’insorgere della lebbra. Alcuni molluschi possono trasmettere l’epatite virale ed altre malattie infettive.
Il pesce, i molluschi ed i crostacei in genere, sono sostanze ad altissima velocità di putrefazione. Questo processo putrefattivo continua all’interno dello stomaco e poi dell’intestino, di chi ne fa uso, con aumento di acidi tossici.
Nel pesce come in tutti gli animali uccisi violentemente dall’uomo e poi mangiati, vi è il terrore, l’angoscia, la paura dell’animale accumulata durante la sua cattura e la sua uccisione: più e lunga e dolorosa la morte di un animale più è pregna di vibrazioni mortali.
I pesci a più elevato contenuto di istamina sono nell’ordine: sardine, sgombri, alici e tonni, ovvero il pesce azzurro tipico dei nostri mari.
Le prostaglandine PG I e III (positive e quindi utili dei prodotti vegetali) sono vasodilatatrici, regolano la coagulazione, abbassano il colesterolo LDL (quello cattivo), svolgono azione antinfiammatoria e mantengono il bilancio elettrolitico.
Per contro le PG II (negative e quindi dannose) dei pesci hanno gli effetti diametralmente opposti, causano: ritenzione idrica, aggregazione piastrinica, infiammazioni, aumento pressione del sangue.
La popolazione mondiale è afflitta da eccesso di PG II-negative, ovvero da eccesso di Omega-3 da carne e da pesce, nonché da carenza di PG I-III-positive, ovvero da Omega-3 da verdure e frutta fresca e secca.
Gli acidi polinsaturi, di cui il corpo umano ha bisogno, si trovano nelle PG 1 e 3 (positive e ottime), a condizione che siano crude: la cottura rompe i doppi legami insaturi e li ritrasforma in saturi, oltre che trasformare la parte lipidica in acreoline fegato-distruttrici.

ASPETTI ETICI
La morte del pesce è tra le più atroci che si possano immaginare, sia che vengano uccisi con la fiocina, l’arpione, il coltello o per asfissia nelle reti. La morte del pesce, in qualunque modo avvenga per opera dell’uomo, è un fatto ingiusto e crudele: le chiazze di sangue delle tonnare o la contorsione dei pesci in agonia nelle reti non hanno bisogno di commenti. Che dire degli animali dotati di zampe, che se non sono immobilizzati, quando vengono immersi ancora vivi nell’acqua bollente, che entra negli occhi ed in ogni cavità dell’animale, oppure arrostite sulla piastra, che schizzano via come saette?
Altrettanto tremenda e dolorosa è la morte per asfissia del pesce pescato con le reti: le convulsioni dell’animale che disperatamente cerca di riconquistare il suo ambiente vitale, sono la più palese manifestazione di dolore.
Per non parlare della pesca sportiva: vero e proprio passatempo per gente stupida, insensibile e crudele. L’amo che viene estratto dalla bocca del pesce che si contorce dallo spasimo e che lacera anche parte della testa è paragonabile ad un arpione conficcato nella bocca di un uomo che viene brutalmente estratto fracassandogli le mandibole, la fronte ed il cervello per poi somministrargli con un pò d’acqua pochi grammi di ossigeno per prolungare il più possibile la sua vita e quindi la sua agonia.
Ma vi sono anche le mattanze delle tonnare: l’orrore che suscita l’enorme chiazza di sangue che, come una profanazione della vita, macchia l’azzurro intenso del mare, fa vergognare di appartenere alla specie umana.
E i pesci uccisi per congelamento? E quelli spasimanti in pochi centimetri di acqua nei mercati perché la gentile signora, o signore, possa deliziarsi il palato con il corpo di una creatura appena eviscerata da viva?
Non è forse raccapricciante l’idea degli acquari nei ristoranti in cui il cliente sceglie quale pesce farsi cucinare al momento decidendo vita o morte e sofferenza per una splendida creatura? Eppure i pesci non sono creature meno sensibili o meno intelligenti degli animali terricoli.
Molti pesci hanno intelligenza pari se non superiore a quella di molti animali terricoli.
I pesci sono dotati di sistema nervoso e quindi capaci come noi di percepire il dolore.
Il polpo ha un cervello molto sviluppato e l’intelligenza del delfino supera quella del cane e in moltissime circostanze ha salvato l’uomo da morte sicura, spesso da un attacco da parte di squali.
Il pesce è dotato di percezioni sofisticatissime (altro che radar) oltre che di quegli strumenti naturali che rendono capace il suo corpo di estrarre dall’acqua l’ossigeno di cui ha bisogno per vivere.
Il pesce ragiona, sente, vede, dorme, gioca, ha paura e quindi si nasconde. L’agilità e la velocità con cui si muove un pesce nel suo ambiente naturale ha qualcosa di affascinante e di prodigioso. La perfezione dei suoi occhi in grado di percepire chiaramente nell’acqua, la complessità delle sue branchie e dei suoi sensori ricettivi ed elaborativi, la squisita geometria delle sue squame, la gamma pressoché sconfinata dei suoi colori sgargianti, vengono per sempre annientate con la morte dell’animale quando viene privato dell’unica sua ricchezza, la vita, per un attimo di “piacere” che possono dare le sue carni martoriate. Se un qualsiasi essere vivente non fosse in grado di accusare il dolore, se non avesse paura della morte si autodistruggerebbe e nulla esisterebbe nel Cosmo. Il dolore, infatti, è ciò che accomuna tutti gli esseri viventi: è come una lancia puntata dietro la schiena di ogni creatura che la sprona ad avanzare sulla via dell’evoluzione acquisendo esperienza, memorizzando il pericolo e aguzzando l’astuzia in modo da sfuggire al predatore.
Se il pesce fosse necessario alla nostra buona salute come si spiega l’ottima condizione di coloro che non lo mangiano? Solo questo basta a capire che non vi è alcuna necessità di consumare pesce ma che ci sono moltissime ragioni per smettere di mangiare ciò che danneggia non solo la nostra salute, il nostro pianeta ma, soprattutto, la nostra coscienza.

La leggenda che il pesce faccia bene al cervello nasce il secolo scorso quando iniziarono i tentativi di spiegare in termini chimici i fenomeni dell’intelligenza umana. Friedrich Buchner(1824-1899) esaminando la composizione chimica del cervello di diversi animali, constatò che il cervello dell’uomo era quello più ricco di fosforo e poiché l’uomo era ritenuto l’animale più intelligente dedusse che il grado di intelligenza dovesse essere proporzionale alla quantità di fosforo presente nel cervello.
Nello stesso periodo il chimico francese Jean Dumas (1800-1884) analizzando la carne di diversi animali trovò che quella di pesce conteneva, sia pure in misura molto modesta, più fosforo di quella di altri animali. Ma fu il naturista Jean Luis Agassin (1807-1873) che dedusse senza alcun fondamento scientifico che il pesce fa bene al cervello umano. Non esistono vegetali privi di fosforo e molti di questi, come i legumi, contengono quantità di fosforo molto più elevate, le mandorle addirittura ne contengono più del doppio, in percentuale di parte edibile.
Ma questo non significa che quanto più fosforo contiene un alimento tanta più salute apporta al nostro organismo. Anzi è stato accertato che più è alto il contenuto di fosforo in un alimento più viene sottratto calcio all’organismo, perché il fosforo è sostanza acidificante. Non esiste la purché minima prova scientifica che il fosforo possa aumentare, anche minimamente, le facoltà intellettive della persona.

mercoledì 24 novembre 2010

Nasce prima il farmaco o la malattia?



Chi non va di corpo spontaneamente almeno
tre volte la settimana da oltre sei mesi è affetto da
stitichezza cronica. Chi l’ha detto? È una delle definizioni
che vanno sotto il nome di “criteri di
Roma” e che sono opera di vari team di esperti;
costoro si riuniscono periodicamente nella città
eterna per inquadrare i disturbi funzionali dell’intestino
e hanno descritto sinora 21 entità nosologiche
su cinque diverse regioni anatomiche
del tratto gastroenterico.

La rilevanza di questa impresa si può apprezzare,
per esempio, sulla base di uno studio
appena pubblicato. Un trial randomizzato e controllato
a doppio cieco con placebo ha appurato
che il tegaserod (agonista dei recettori della serotonina-
4, in commercio negli USA) produce una
evacuazione spontanea in più ogni due settimane
in chi soffre di stitichezza cronica, al costo di circa
100 $ per “evento” aggiuntivo. Sulla base di
evidenze come questa verrà presto approvato
anche in Europa.

Chi sorride, si ricreda. Questo farmaco è un
blockbuster, che dovrebbe rendere 1 miliardo di
dollari di fatturato l’anno al produttore. Con
queste prospettive di mercato, si spiega la generosità
con cui molte case farmaceutiche hanno finanziato
sin dalla fine degli anni Ottanta i gruppi
di specialisti che si riunivano a Roma, come pure
le associazioni di pazienti che si sono andate costituendo
per condurre azioni di lobby, sino a federarsi
nell’International Foundation for Functional
Gastrointestinal Disorders, i cui fondi
derivano per più del 90% dall’industria.
È un fiume di denaro che da quasi venti anni
alimenta e indirizza le attività degli specialisti che
stabiliscono le definizioni e gli standard, dei
medici che devono applicarli e dei pazienti che
promuovono la consapevolezza sui disturbi dell’alvo
e sulla loro importanza.

La ricompensa per alcuni degli investitori
sembrava già a portata di mano nel 2000,
quando la Food and Drug Administration
approvò l’alosetron, un farmaco indicato per la
sindrome dell’intestino irritabile a prevalenza
diarroica. Ma pochi mesi dopo il prodotto venne
prima ritirato, per la segnalazione di gravi effetti
collaterali tra cui alcuni casi di grave colite
ischemica, e poi riammesso in commercio con
severe restrizioni. Ora la storia si ripete, perché
anche il tegaserod, indicato invece per la forma
a prevalente stitichezza, è bersagliato dalla segnalazione
di importanti effetti avversi, tra cui
grave diarrea e ischemia.

Strategie per un blockbuster

Intanto, sin dal 2002 sul British Medical
Journal erano comparse rivelazioni, tratte da documenti
riservati di agenzie di comunicazione,
sulle strategie utilizzate dai produttori di farmaci
per inculcare nella mente dei medici e dei pazienti
la sindrome dell’intestino irritabile “come uno
stato di malattia a sé stante e rilevante” e “come
una patologia frequente e riconosciuta”.
La prima mossa, a livello locale, consiste nel
costituire un advisory board, nel quale figurino
anche opinion leader riconosciuti. Poi si passa a
sviluppare “linee-guida di buona pratica”, a
diffondere tra i medici una newsletter, ad avviare
un programma di “sostegno per i pazienti”, sino
a convincere tutti che la sindrome dell’intestino
irritabile è una “malattia seria e credibile”.
Riviste specializzate come Pharmaceutical
Marketing spiegano che questa strategia è la più
adatta per preparare le condizioni necessarie alla
creazione di un blockbuster (una molecola capace
di creare ricavi per oltre un miliardo di dollari
l’anno), obiettivo cui i colossi del farmaco non
possono rinunciare, pena la perdita di posizioni.
Si tratta propriamente di “vendere” innanzitutto
una malattia (disease mongering è il crudo termine
anglosassone), per creare un mercato potenziale
sufficientemente ampio ai prodotti che verranno
in seguito lanciati.

Nella vicenda della sindrome dell’intestino irritabile
ciò è stato realizzato con il percorso dei
“criteri di Roma”, in altri contesti si è provveduto
all’inserimento di una nuova entità e della sua definizione
in repertori come il Diagnostic and Statistic
Manual o l’International Classification of
Disease. In tutti i casi è necessaria un’azione coordinata
sui panel di esperti e sugli opinion leader
del settore, che infatti risultano avere legami
molto stretti con le industrie interessate in un’alta
percentuale dei casi.
Si arriva così a riformulare diverse esperienze
esistenziali in termini funzionali a progetti di
marketing, come è stato ben analizzato nel già
citato articolo del British Medical Journal, da cui
si riportano alcune trasformazioni dimostrative.

• La calvizie: da inconveniente ordinario a problema
medico.
• La fobia sociale: da malessere sociale o personale
a disturbo psichico.
• La disfunzione erettile: da difficoltà occasionale
a patologia frequente e diffusa.
• I disturbi dell’alvo: da fastidi leggeri a sintomi
di malattie gravi.
• La rarefazione dell’osso: da fattore di rischio a
malattia.

Da problema a malattia
Sono molti gli esempi di farmaci in cerca di
malattia, come personaggi pirandelliani.
Il meccanismo è ormai ben oliato e non
comporta che una entità nosologica venga inventata
di sana pianta. Anzi, la cosa fila meglio
se si parte da un problema reale, ma lo si ridefinisce
opportunamente. L’osteoporosi è un
processo fisiologico legato all’età, e rappresenta
realmente uno dei tanti fattori di rischio di
fratture. La si reinterpreta prima come malattia e
se ne dà poi una definizione su base strumentale
che conferisce alla diagnosi un elemento di obiettività,
stabilendo una soglia quantitativa necessariamente
arbitraria. In questo modo risulta
facile raggiungere tre obiettivi, tutti importanti
per il mercato:

• si riconduce la prevenzione delle fratture
(vero obiettivo di salute) al solo rinsaldamento
delle ossa;
• si riduce la molteplicità di possibili interventi
per rendere salde le ossa ai soli farmaci;
• si aumenta il numero di soggetti da trattare
per scongiurare una singola frattura.

Questo ultimo elemento, che costituisce una
misura del “mercato potenziale”, può essere poi
ciclicamente incrementato attraverso proposte di
riduzione della soglia oltre la quale si ritiene indicato
il trattamento. Poiché la funzione di rischio
è in genere di tipo continuo, è sempre possibile
formulare due affermazioni comunque vere:

• esiste un rischio anche sotto la soglia;
• anche se questo rischio è minore, riguarda un

più alto numero di casi che si potrebbero prevenire.
Un esempio importante in cui fattori di rischio
sono stati concettualizzati come malattie, e poi
definiti sulla base di soglie quantitative, che
vengono periodicamente rivedute al ribasso sulla
base delle affermazioni suddette, è quello degli accidenti
cardiovascolari: per colesterolo, pressione
arteriosa e glicemia negli ultimi venti anni sono
stati proposti numerosi livelli di intervento,
capaci di coinvolgere di volta in volta popolazioni
da trattare sempre più ampie.
Anche per questi processi di definizione
“quantitativa” di malattie, l’intervento dell’industria
è stato costante e capillare.
I sociologi e gli antropologi sono arrivati negli
ultimi decenni a dimostrare che i concetti di malattia
e le relative definizioni sono costrutti sociali,
e come tali storicamente ed etnicamente variabili;
si assiste però oggi al fenomeno inedito della costruzione
industriale della malattia, in genere su
scala globale e con finalità commerciali.


Bibliografia

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disorders. www.romecriteria.org/history.htm
2 Kamm MA, Muller-Lissner S, Talley NJ, et al. Tegaserod for
the treatment of chronic constipation: a randomized, double
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Gastroenterol 2005; 100: 362-72.
3 Kassirer JP. On the take. How medicine’s complicity with
big business can endanger your health. Oxford: University
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5 Moynihan R, Heath I, Henry D. Selling sickness: the pharmaceutical
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Pharmaceutical Marketing 2001; 6: 14-22.
7 Tombesi M. La prevenzione nella pratica clinica. Torino:
UTET, in press.
8 Chobanian A, Bakris GL, Black HL, et al. The seventh
report of the Joint National Committee on Prevention,
Detection, Evaluation and Treatment of High Blood
Pressure. JAMA 2003; 289: 2560-72.
9 Grundy SM. Implications of recent clinical trials for the
National Cholesterol Education Program Adult Treatment
Panel III Guidelines. Circulation 2004; 110: 227.
http://hin.nhlbi.nih.gov/ncep.htm
10 Good B. Medicine, rationality and experience. Cambridge:
University Press; 1994: 52-62.
98 EDITORIALE

AIFA - Ministero della Salute

LUCI E OMBRE DELLA MEDICINA TRADIZONALE





DI FRANCO LIBERO MANCO
luigiboschi.it

Nel 1535 Jacques Cartier salpò dalle coste della Francia diretto verso Terranova con un equipaggio di 110 uomini. In 6 settimane 100 uomini si ammalarono di scorbuto. Un indigeno disse loro di bere succhi dei frutti di un albero che crescevano in quella zona e gli uomini guarirono nel giro di pochi giorni. Da quell'episodio capitani di navi accorti e lungimiranti comandarono al loro equipaggio di consumare succhi di arancia e limone per scongiurare lo scorbuto. Ci volle molto tempo prima che il mondo medico accettasse questa semplice soluzione, ma alla fine nel 1795 dovette soccombere al buon senso e il succo di limone diventò obbligatorio nella dieta dei marinai.

Uno dei motivi per cui le infezioni sono così numerose in ospedale è che molti infermieri amano più gli antibiotici che lavarsi le mani. Quando nel 1843 Oliver W. Holmes suggeriva ai medici di cambiare gli indumenti e lavarsi le mani dopo aver visitato i pazienti affetti da febbre puerperale le sue richieste vennero completamente ignorate. Anche l'avvento dell'anestesia è stata per lungo tempo trascurata se non osteggiata dal mondo medico e venne ufficialmente accettata soltanto quando la regina Vittoria diede alla luce il principe Leopoldo sotto l'effetto del cloroformio. Fino al 1980 era prassi comune operare i bambini senza anestesia perché si riteneva che fossero incapaci di provare dolore.



Da dati riportati da vari libri e giornali, pare che oggi i medici causano più malattie e decessi del cancro o delle cardiopatie. Una persona su 6 si trova in ospedale a causa del medico. Le reazioni negative ai farmaci sono la quinta causa di morte negli Usa perché i medici non comprendono i pericoli associati ai farmaci. Il 40% delle persone che assume farmaci subisce pesanti effetti collaterali, daltronde nessuno può stabilire in anticipo quali saranno le conseguenze sulla salute di un farmaco lanciato sul mercato. Molte più persone vengono uccise dai farmaci prescritti che dall'uso illegale di droghe. Solo in Australia ogni anno vengono ricoverate quasi mezzo milione di persone perché dei medici li hanno fatti ammalare e 18.000 di questi muoiono ogni anno a causa di errori medici, tossicità dei farmaci, errori chirurgici ecc., mentre negli Usa i casi di mortalità a causa dei medici si aggira intorno alle 200.000 unità. E le cifre in Europa non sono più incoraggianti dove medici e medicine pare che uccidono più persone di tutti i tipi di cancro. In realtà i medici rappresentano una delle principale causa di malattie e morte molto più di tutti gli altri tipi di problemi messi insieme, compreso cancro e malattie cardiache.

Daltronde, come afferma la stessa rivista British Medical Journal, 6 trattamenti su 7 non sono supportati da prove scientifiche. Il problema di fondo è che gran parte della ricerca medica è organizzata, pagata, commissionata e sponsorizzata dall'industria farmaceutica che è fatta per produrre buone recensioni e non certo arrecare danno a se stessa. Pare che molti degli scienziati implicati sono pronti a modificare i risultati dei loro esperimenti se questi non danno i risultati sperati. Si calcola che almeno il 12% delle ricerche scientifiche siano false.

Anche gli esami e le analisi per le diagnosi mediche pare non siano affidabili: non riescono a prevedere l'andamento di una malattia nel 50% dei casi. Dei patologi hanno effettuato diverse centinaia di autopsie scoprendo che più della metà dei defunti era morto per una causa diversa da quella diagnosticata, praticamente aveva ricevuto un trattamento medico sbagliato. E se la vita media si è allungata (ma non certo il benessere della persona) ciò non è dovuto ai medici e alle medicine ma all'igiene, all'acqua corrente, al riscaldamento centralizzato, al poco lavoro, alla riduzione della mortalità infantile, alla carenza di guerre. Ci sono più malati oggi di quante ce ne siano stati in tutta la storia umana. In sostanza si può dedurre che dopo i 65 anni di età il cittadino è un peso per lo Stato e cerca di sostituirlo con chi produce.

Il numero delle persone che muoiono a causa dei medici è 4 volte maggiore di quello delle persone che muoiono per incidenti stradali. Praticamente il medico ha più probabilità di ucciderci della nostra automobile. In realtà i medici oggi sono solo un canale commerciale dell'industria farmaceutica e gran parte dei medicinali che prescrivono non si conosce gli effetti perché tutti i medicinali, nessuno escluso, sono sperimentati sugli animali. Insomma i medici uccidono più persone di quante non ne curino e causano più malattie e disagi di quanti ne riescano ad alleviare: il motivo è da ricercare nel fatto che la classe medica è in stretta alleanza con l'industria farmaceutica.

Almeno il 70% degli esami e dei test richiesti dal medico non sono necessari. Un sondaggio ha dimostrato che le analisi del sangue e delle urine consentono al medico di formulare una diagnosi esatta solo all'1% dei casi. Uno studio recente ha dimostrato che su 93 bambini cui erano state diagnosticate malattie di cuore solo il 15% erano realmente malati.

Se si dovesse classificare l'industria del cancro in base al suo fatturato sarebbe tra le più importanti del mondo; ma se la si dovesse considerare in base alla sua capacità di sconfiggere la malattia che si prefigge di combattere sarebbe tra le industrie più fallimentari del pianeta.

Nel 1970 una persona su 6 poteva ammalarsi di cancro; nel 1980 il rischio era raddoppiato; nel 1990 si arriva a circa il 40%. Non solo, oggi il tasso di sopravvivenza al cancro è lo stesso del 1950. I tempi della dichiarata guarigione dal cancro rientrano nei 5 anni: se una persona muore dopo 5 anni e un giorno il caso verrà considerato un successo. Sembra che lo scopo dominante sia tenere in vita il paziente per quei 5 anni. Uno studio approfondito ha dimostrato che i pazienti che avevano rifiutato i trattamenti convenzionali del cancro sono vissuti in media tre anni di più. In realtà la guerra contro il cancro è stata un fallimento come quella contro la droga. E i medici che osano consigliare terapie alternative, naturali, vengono sistematicamente isolati, scherniti, disprezzati.

I risultati delle ricerche mediche dipendono da chi le finanzia. Ma nessuno sembra interessato a scoprire perché ci si ammala di cancro, o di qualunque altra patologia: questo farebbe diminuire i profitti e il fatturato. Nessuno ha intenzione di far capire alla gente che il nostro organismo è in grado di neutralizzare, senza l'ausilio di medici e medicine, di 9 malattie su 10 .

Un gruppo di ricercatori ha esaminato le cartelle cliniche di 100 pazienti: solo il 53% degli infarti era stato diagnosticato. Nel corso di uno studio è stato chiesto a 80 medici di esaminare un modello di seni femminili al silicone: i medici sono riusciti a trovare solo metà dei noduli anomali nascosti. Un altro studio ha dimostrato che su pazienti in punto di morte una diagnosi su 4 era sbagliata e che il 70% dei deceduti sottoposti ad autopsia presentavano patologie gravi mai state diagnosticate. In un altro studio avente per oggetto 400 autopsie in più della metà dei casi era stata formulata una diagnosi sbagliata. Anche gli errori della lettura di raggi X si aggira intorno al 30% e anche quando le radiografie vengono visionate una seconda volta solo un terzo degli errori commessi viene individuato.

Nel 1950 un bambino su 14 si ammalava di cancro; nel 1985 la cifra era salita a uno su 4 e nonostante gli ingentissimi finanziamenti le industrie ricercatrici non sembrano provare il minimo imbarazzo per l'abissale fallimento, anzi continuano a chiedere altri e poi altri fondi. In realtà la scienza medica non sa come affrontare il cancro. Se una persona ammalata di cancro e si fa visitare da tre medici diversi riceverà sicuramente tre diverse terapie.

Il problema è che la quasi totalità dei medici non accetta che ci sia un legame tra stile di vita e malattia, tra cibo e cancro, anche se la National Academy of Sciences afferma che il 60% dei casi di cancro nelle donne e il 40% negli uomini sono collegati a fattori nutrizionali. Anche la Britisch Medical Association calcola che almeno un terzo dei casi di cancro è attribuibile all'alimentazione, anche se il legame tra grassi-proteine animali e cancro è ormai inconfutabile. Negano l'esistenza tra stress e sistema immunitario, tra tossiemia e malattie congenite. Ma i medici si ostinano a ignorare tale equazione e si rinnova la nemesi karmica che da millenni grava sulla classe medica, a danno della popolazione.

Fin da quando fu introdotta la mammografia al seno mediante raggi X i medici si accorsero che poteva procurare più casi di cancro di quanti non ne rilevasse. Ogni dose media di raggi X equivale ai danni di 6 sigarette.

Alcuni studi negli Usa hanno dimostrato che l'incidenza del cancro in una determinata zona di un determinato paese aumenta con il numero dei medici presenti in quella zona. La propensione per la radiografia da parte dei medici forse spiega tale fenomeno.

Spunti tratti dal libro "Come impedire al vostro medico di nuocervi" di Vernon Coleman

Ma anche se il meccanismo instaurato in campo medico ha allontanato i medici dal principio ippocratico che recita "Primo non nuocere", ritengo ingiusto trascurare l'importante contributo della medicina e di molti medici i quali, con vero spirito di sacrificio personale, in molte circostanze risultano determinanti per alleviare sofferenze e salvare molte vite, specialmente nei casi di emergenza. L'operato dei medici dovrebbe essere improntato a combattere le cause delle malattie e considerare simultaneamente l'entità umana in tutte le sue componenti fondamentali ed quindi uscire della logica settoriale e dei sintomi in una visione olistica in cui la medicina naturale rientra come branca insostituibile e complementare per il bene integrale dell'uomo.

"Un medico è un uomo che viene pagato per raccontare delle fandonie nella camera del malato, fino a quando la natura

non l'abbia guarito o i rimedi non l'abbiamo ucciso" (A. Furetière).

"Un terzo di ciò mangiamo serve a vivere, gli altri due terzi a far vivere i medici" (Papiro egiziano).

Franco Libero Manco
Fonte: www.luigiboschi.it
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